martedì 14 dicembre 2010

Vincenti e perdenti

Definizioni in uso fra coloro che hanno avuto il piacere di trovarsi in situazioni sociali vantaggiose per capacità o per fortuna: o meglio per tutte e due, se è vero che l'una non esisterebbe se non ci fosse l'altra. Una vita condizionata da un benessere selvaggio, fa perdere di vista l'essenza stessa del reale, una permanenza forzata nell'agio non ci rende migliori, anzi, causa una paralisi parziale del cervello che non riesce a discernere il bene dal male assoluto, ma solo quanto serva per migliorare la propria situazione economico sociale, unico bene capace di far dimenticare la noia del quotidiano, così diversa dall'ansia generata dai disagi della vita vissuta.
Ieri ascoltando un intervento del direttore del Giornale, Sallusti, mi sono accorto che il berlusconismo è veramente un malanno ai cui virus è difficile reagire.
Mario Adinolfi, PD, giornalista, lamentava che lo Stato non permette che un cittadino operaio, se pure fortunato ad avere un lavoro, possa pagare tranquillamente il fitto o, ancora più difficile, il mutuo, e questo capita anche a persone 40enni: Sallusti tagliava corto definendo, con disprezzo, fallito chiunque si trovi in queste condizioni. Una volta un Vescovo in un'omelia domenicale, definì Gesù Cristo il più grande fallito della storia; fallire nonostante l'impegno, non è sinonimo di meschinità, è atto di sofferenza dura, è provare sempre più la resistenza, mettere in dubbio il carattere, discutere le capacità. L'uomo è tale per la voglia indistruttibile di rialzarsi, di mordere con forza la vita, di perseguire i propri ideali senza scoraggiamenti, di riprendere a combattere anche da posizioni di netta inferiorità. I cosiddetti vincenti devono dimostrare tutto ciò, e, credetemi, ho visto solo suicidi quando questi signori sono caduti.
Stativi buoni.

Roy